EA Games Dragon Age: La guardia del velo
«Dragon Age: The Veilguard» alla prova: perfetto per chi trova «Baldur’s Gate 3» troppo complicato
Con «Dragon Age: The Veilguard», Bioware propone un appassionante gioco di ruolo d’azione destinato al grande pubblico, ma che non dimentica le sue radici.
Anche se non corrisponde all’immagine classica del prodotto mainstream, «Baldur’s Gate 3» ha riscosso un successo incredibile. È inaccessibile, complicato e lunghissimo. Ma i dati di vendita sono inequivocabili: questo successo inatteso ha venduto oltre 20 milioni di copie. È con questo titolo che devono misurarsi tutti i futuri rappresentanti del genere, incluso «Dragon Age: The Veilguard» di Bioware. Con «Baldur’s Gate» 1 e 2, lo studio canadese ha creato il modello di riferimento per il grande successo di Larian. È un mondo alla rovescia, nel quale Bioware vuole riscattarsi dai fallimenti del passato con il quarto «Dragon Age».
In effetti, dopo i due flop che sono stati «Anthem» e «Mass Effect Andromeda», lo studio ha parecchio da farsi perdonare. Sorprendentemente, «Dragon Age: The Veilguard» ha molto in comune con l’ultimo titolo, o meglio con la trilogia incentrata sul comandante Shepard. E lo dico in senso positivo.
La storia principale è un mezzo per raggiungere un fine
Come fan della prima ora di «Dragon Age» descriverei questi giochi come un triangolo equilatero composto dai tre elementi storia, compagni e combattimenti. «Dragon Age: The Veilguard» è più un triangolo isoscele, con il lato corto costituito dalla storia principale. Storia che, sebbene sia anche qui il fulcro del gioco, non si sviluppa molto in profondità. E comincia da Solas, un metalupo. Che è anche il motivo per cui il gioco originariamente si chiamava «Dreadwolf». Il compagno elfico di «Dragon Age Inquisition» vuole usare un pugnale magico per squarciare il «velo» che separa il regno di Thedas dal mondo dei demoni. Velo in inglese si dice «veil», da cui il titolo finale «Veilguard».
Il rituale fallisce e vengono liberate due potenti divinità elfiche che nel corso del gioco devono essere soggiogate. Anche i demoniaci darkspawn e la misteriosa piaga detta «peste» tornano a minacciare il mondo. Non mancano scene epiche o battaglie da boss contro draghi a tre teste, ma la storia principale offre ben poco in termini di contenuti.
La colpa è anche un po’ dei dialoghi, che non sono sufficientemente eloquenti e spesso mancano di sostanza. Sono anche tendenzialmente corti, il che da un lato mi rende felice, perché così non rischio di farmi trapanare le orecchie. Si dice che «Dragon Age» abbia più testo di «Baldur’s Gate 3». Non reggono però il confronto con i suoi dialoghi.
Soprattutto con il mio personaggio, mi capita spesso di non trovare il testo giusto nella ruota delle risposte. Questo menu è stato introdotto in «Mass Effect». Qui c’era un sistema di moralità che andava da «Eroe» a «Rinnegato» e che era sì monodimensionale, ma dava comunque l’illusione di una certa individualità. Il mio personaggio dà ogni risposta con una neutralità pacata e affabile. Motivo per cui non riesco a crearmi una figura ben definita. Sono un «people pleaser» generico. Nemmeno con il nome riesco a crearmi una parvenza di personalità. Ho ribattezzato il mio Qunari «Horny», ma il nome non compare mai nel gioco.
Invece mi chiamo Rook. Il mio personaggio è una figura di eroe liberamente configurabile che, in classico stile Bioware, raduna intorno a sé una squadra di compagni per salvare il mondo. Posso scegliere tra quattro classi: Elfo, Qunari, Umano e Nano. Ci sono poi sei raggruppamenti. Entrambe queste opzioni influiscono sulla storia e sulle opzioni di dialogo di Rook. Tutti aspetti che, comunque, non emergono in modo netto in «Veilguard».
Più importante è la classe. Ne esistono tre diverse: guerriero, mago e ladro. Forse un po’ pochine. Nel ricco albero delle abilità, posso però scegliere tra tre specializzazioni. Scelgo il ladro, che predilige il combattimento corpo a corpo e a distanza.
A questo punto parte l’introduzione, al termine della quale mi ritrovo nella mia nuova base, il Faro. È una piccola isola galleggiante che a poco a poco si riempie dei miei compagni di avventura. Una vecchia conoscenza è il nano Varric, che fa parte della squadra sin dalla seconda parte. È sempre lui che riepiloga gli eventi in corso in splendide scene di intermezzo.
Partendo dal Faro, viaggio nelle varie regioni di Thedas attraverso gli «Incroci». L’Incrocio è un regno magico fatto di specchi giganteschi attraverso i quali posso raggiungere le mie destinazioni. Naturalmente non può mancare un misterioso traghettatore alla guida di una nave sospesa.
Tattica poca, ma tanta agilità e potenza
Non appena il gioco mi lascia un po’ di libertà, mi lancio nell’avventura, il che equivale a dire un sacco di combattimenti. Anche in questo caso il gioco mi ricorda «Mass Effect». Proprio come nell’epopea fantascientifica, posso portare con me al massimo due compagni. Che però posso controllare solo indirettamente. Posso mettere in pausa l’azione in qualsiasi momento per dare loro una manciata di istruzioni. Per lo più, mi limito a indicare un bersaglio e a selezionare un attacco speciale. Insieme a loro posso scatenare potenti attacchi combinati.
Non devo stare a pensare a quali attacchi combinare: gli attacchi pronti per una combinazione si accendono, con la descrizione «Combinazione possibile». Se ne scelgo uno, sotto alla scritta «Combinazione con» si illumina subito anche l’attacco abbinato. «Veilguard» non si avvicina alla profondità tattica del primo «Dragon Age», in compenso è subito comprensibile anche per i principianti.
Grazie alle varie sinergie, alcuni compagni vanno più d’accordo con altri. Tuttavia, posso determinare il loro orientamento solo fino a un certo punto tramite i loro alberi delle abilità. Perché proprio come me, possono attivare solo tre abilità alla volta. Nel mio caso ho anche un attacco finale.
I combattimenti sono senza dubbio uno dei momenti migliori di «Veilguard». Sono potenti, veloci e più diretti di quanto non lo siano mai stati nella serie. Come ladro, posso correre e saltare avanti e indietro sul campo di battaglia. Se blocco il gioco al momento giusto, posso passare al contrattacco. Schivo gli attacchi non bloccabili. Se scelgo il momento giusto, è come se il tempo rallentasse per un attimo. I combattimenti non sono mai troppo difficili o troppo facili. E non devo preoccuparmi dei miei compagni, perché è evidente che non possono essere feriti. Anche in questo caso l’accessibilità è in primo piano.
Dal momento che gli avversari si proteggono con barriere o armature magiche, devo indebolirli sferrando gli attacchi giusti. Contro le barriere sono efficaci gli attacchi con le frecce, mentre contro le armature meglio usare colpi forti, che ottengo premendo più a lungo il pulsante di attacco. Ho giocato con il controller, che probabilmente è il mio comando preferito. Ho anche abilità come una pioggia di frecce velenose o il lancio di fulmini. Tutte queste cose insieme trasformano i combattimenti in un balletto d’azione esplosivo, come raramente mi è capitato di vedere in un gioco di ruolo.
È un peccato che i miei compagni possano usare una sola abilità alla volta, dopo di che devo attendere il cooldown. Alla fine, in pratica, uso sempre solo le abilità che mi permettono di ottenere una combinazione. Ci sarebbero numerose abilità interessanti, come rallentare il tempo, la tempesta di ghiaccio o schivare gli attacchi.
La mia ultima arma è il pugnale di Solas, che ho «ereditato» all’inizio del gioco. Posso aggiungervi anche tre rune che mi danno vari potenziamenti. Come nel caso delle abilità, si può attivare una sola runa alla volta. Posso usarla per rendermi invulnerabile per un breve periodo, per infliggere danni da fuoco o per resettare i cooldown delle mie abilità. In teoria utilissimo, ma nella foga della battaglia è spesso difficile scegliere la runa giusta.
I compagni sono il fulcro del gioco
Il pilastro portante di ogni «Dragon Age» sono i compagni di avventura. Qui serve un po’ di pazienza. Ci vogliono all’incirca 15 ore perché inizino a mostrare la loro personalità e io cominci ad affezionarmi. Prima di questo, fanno un sacco di conversazioni senza senso. E si sprecano i momenti potenzialmente divertenti. Come quando entro nella stanza della graziosa ma un po’ persa acrobata del velo Bellara e la trovo in conversazione con un negromante e uno spirito mascherato. Dopo solo due frasi, sono già fuori dalla stanza senza aver appreso nulla o aver fatto una cavolo di battuta.
Anche il sicario Lucanis Dellamorte all’inizio è un guscio vuoto. Se dovessi descriverlo, direi che parla un dialetto spagnolo e ha un demone dentro. Una carta di «Magic the Gathering» ha più spessore di lui. Non è la prima volta che mi chiedo se Bioware non abbia smussato troppo gli angoli. Al gioco manca un po’ di mordente. I miei compagni sono un gruppo di ammorbidenti.
Ad eccezione della maga Neve Gallus, che in inglese suona davvero troppo monotona, gradualmente tutti sviluppano caratteristiche interessanti. C’è il Guardiano Grigio Davrin, che si propone come cacciatore di mostri insieme al grifone che ha adottato. Tiene particolarmente al benessere delle magiche creature volanti ed è alla ricerca del proprio destino.
Emmrich, il simpatico negromante che di solito insegna agli studenti e porta con sé nelle missioni lo scheletro di un bambino di nome Manfred come suo aiutante, è il mio eroe. E non si può non amare Taash, la cacciatrice di draghi Qunari che sputa fuoco, in perenne conflitto con la severa madre e che combatte i demoni peggiori nel suo intimo, anzi, ci si potrebbe persino iniziare una storia d’amore. Naturalmente la ritrovi anche in «Dragon Age: The Veilguard». Purtroppo, solo con una persona alla volta, cosa che farà restare malissimo tutti i fan del poliamore.
Bellara compensa la sua reticenza iniziale con conversazioni tipo:
- Lucanis: «Non hai paura di un sicario come me?».
- Bellara: «Direi di no. Nessuno pagherebbe per farmi uccidere».
- Lucanis: «In effetti».
Cinico, ma divertente. Mi diverte sempre scoprire quali dialoghi nasceranno tra le varie coppie. In attesa che questi personaggi si sviluppino del tutto, trovo la mia motivazione di gioco soprattutto grazie al coinvolgente sistema di combattimento e alla quantità perfettamente dosata di tesori ed enigmi.
Mai un minuto fermi
Il questlog di «Dragon Age: The Veilguard» si riempie più velocemente del boccale di Varric alla bettola locale. Nonostante l’imminente fine del mondo per mano di divinità livorose, invece della storia principale posso portare a termine numerose missioni secondarie. Le quest dei miei compagni sono almeno in parte intrecciate alla trama principale, quindi ha senso lasciarsi distrarre da loro. Come nella maggior parte dei giochi Bioware, sono tra gli elementi più interessanti.
Con i miei sette compagni, posso intraprendere missioni articolate in più parti. A differenza della storia principale, sono quasi sempre raccontate in modo avvincente e sono motivato a giocarle tutte. Come bonus, poi, ricevo speciali oggetti di equipaggiamento. Questo rafforza il mio legame, sia nel gioco che con me stesso come giocatore. Quando accompagno Taash in un’avventurosa caccia al drago o libero dei rapaci catturati insieme a Davrin, mi commuovo per il loro destino perché ormai conosco meglio il loro carattere.
Oltre alle missioni principali e di accompagnamento, ci sono molte missioni regionali. Una volta devo rintracciare degli esploratori scomparsi, oppure sconfiggere dei demoni o, ancora, liberare il mondo dalle epidemie di peste. Nelle quest attive, dei segnali mi indicano sempre il percorso che devo seguire. Come molti aspetti dell’interfaccia, potrei disattivarli, ma si tratta di elementi di accessibilità che apprezzo. Sono in linea con le attività in pillole che il gioco mi propone.
Le regioni sono meno estese che in «Inquisition», ma in compenso sono ricchissime di attività, bottini, enigmi e nemici che aspettano solo di essere menati.
A intervalli regolari, trovo degli scintillanti scrigni dorati. Non di rado, bene in vista sul ciglio della strada. Ci sono poi statue di lupi che, attivate, puntano verso una direzione dove posso trovare una mini-statua che mi dà punti abilità. Un’altra statua proietta bersagli fluttuanti nelle immediate vicinanze. Se li becco tutti, i miei punti salute aumentano in modo permanente. Per raggiungere molti tesori, porte o piattaforme devo risolvere piccoli enigmi. Enigmi che, però, nelle prime 15 ore circa non si meritano questa definizione.
Di solito consistono nel portare cristalli energetici o sfere di spiriti da A a B per aprire una porta o far apparire un ponte magico. Spesso B si trova a pochi metri da A. Mi chiedo se tutto questo è davvero necessario. Come se ciò non fosse abbastanza semplice, spesso i miei compagni mi svelano subito la soluzione. È evidente che con questo sistema Bioware cerca di attirare qualche novellino.
Ogni compagno ha un’abilità unica. L’esploratrice nanica Borte Harding può muovere le rocce, il grifone di Davrin può abbattere le fortificazioni ed Emmrich sa parlare con gli spiriti. Non appena queste abilità sono introdotte, posso usarle anche io con il pugnale magico di Solas. Preferisco fare così, piuttosto che cambiare prima il compagno giusto. I veri enigmi non saltano fuori nemmeno con le abilità dei compagni. Ma almeno rallentano l’azione.
All’inizio ho trovato molto fastidiosa questa mancanza di sfide. Ma dopo un po’ ho apprezzato il fatto che raramente dovevo dedicare più di qualche minuto a un enigma. Sono dei piccoli «premi» che attivano il mio meccanismo di ricompensa mentre mi preparo ad affrontare la quest successiva.
Il bottino consiste in armi, armature, anelli o risorse per migliorare l’equipaggiamento. Se trovo una nuova spada, mi viene mostrata subito e viene confrontata con quella che ho già in dotazione. Mi basta un clic per aggiungerla all’equipaggiamento. Più comodo di così si muore. Se trovo lo stesso oggetto più volte, aumenta il grado di rarità. Il grigio diventa verde, il verde diventa blu e così via. Questo mi rende doppiamente felice durante i saccheggi.
Nel laboratorio del guardiano del Faro posso potenziare il mio equipaggiamento in cambio di risorse. Posso anche aggiungere degli incantesimi. Senza dare niente in cambio. Ogni incantesimo, però, può essere usato solo su un oggetto. Per i livelli di upgrade e incantesimi superiori, devo migliorare il laboratorio. Per farlo ho bisogno di oggetti che sono sparsi per il mondo.
Un tripudio per la vista e l’udito
Dal punto di vista grafico «Dragon Age: The Veilguard» è fantastico. È un’apoteosi di immagini originali e di disegni iconici. Bellara e Taash sono particolarmente riuscite. Ma anche i tanti personaggi secondari sono messi in scena in modo mirabilmente eccentrico. Anche i mostri hanno una grafica strabiliante. I darkspawn, simili a zombie con i loro occhi rosso fuoco, si presentano in una molteplicità di forme. Particolarmente epici sono i draghi giganti, che regalano sempre emozioni forti.
Ancora più impressionante è il mondo di gioco. Rivain Coast offre spiagge suggestive, con acque blu turchese e navi in secca. Nelle catacombe di Nekropolis, puoi ammirare statue gigantesche che brillano di un’inquietante luce verde. E le escrescenze carnose e pulsanti della peste nella zona delle paludi sono splendidamente disgustose.
Non dimentichiamo, poi, la colonna sonora sinfonica, che a volte offre dei ritmi elettronici così sorprendentemente azzeccati che mi ricordano tanto «Mass Effect», il che non è una coincidenza.
A livello tecnico non ho nulla da obiettare. Ho provato la versione per PC, che ha funzionato perfettamente su due sistemi. Anche l’hardware richiesto sembra essere nei limiti.
«Dragon Age: The Veilguard» è disponibile per PC, PS5, Xbox Series X/S e mi è stato fornito da EA.
In breve
La svolta di Bioware
Dopo 35 ore posso affermare senza ombra di dubbio che «Dragon Age: The Veilguard» è un gioco di ruolo davvero divertente. Inizialmente pensavo che Bioware avesse smussato un po’ troppi spigoli. Il gioco è concepito per la massima accessibilità. Soprattutto all’inizio, il gioco mi prende per mano con più forza di quella di un genitore che fa attraversare la strada al suo bambino. I dialoghi sono superficiali, ogni enigma è spiegato con testo, audio e immagini e il gameplay è lineare.
Quello che però ti coinvolge fin dai primi minuti sono i combattimenti. Potenti, diretti e, grazie ad attacchi e incantesimi inediti, anche visivamente spettacolari. E lo stesso vale per la presentazione. Le regioni di «Dragon Age: The Veilguard» sono un vero spettacolo.
La superficialità iniziale lascia gradualmente il posto a un gioco di ruolo stratificato e avvincente. Anche se non raggiunge la complessità di «Baldur’s Gate 3» a livello di contenuti o di gameplay, è molto più fluido, nonostante un questlog incredibilmente ricco.
Il che, però, si deve in gran parte ai miei compagni di avventura i cui destini sono la cosa che più mi ha toccato. L’epica conclusione di «Dragon Age: The Veilguard» mi fa tornare in mente «Mass Effect». I destini del mondo e dei miei compagni sono appesi a un filo e le trame si intersecano incredibilmente. Come dev’essere. Ma non temere: il gioco non finisce come in «Mass Effect 3», con la scelta tra il finale uno, due o tre.
Se «Baldur’s Gate 3», con le sue dimensioni e la sua complessità, ti spaventa e cerchi un gioco di ruolo più accessibile e con più azione, l’ultima opera di Bioware può fare al caso tuo.
Pro
- Compagni fighissimi con serie di quest individuali
- Sistema di combattimento efficace e attivo
- Mondo incredibile
- Accessibile anche ai neofiti
- Missioni secondarie motivanti
Contro
- Storia principale piuttosto semplice
- Dialoghi a volte un po’ superficiali
- I compagni hanno solo un ruolo subordinato nei combattimenti
Vado matto per il gaming e i gadget vari, perciò da digitec e Galaxus mi sento come nel paese della cuccagna – solo che, purtroppo, non mi viene regalato nulla. E se non sono indaffarato a svitare e riavvitare il mio PC à la Tim Taylor, per stimolarlo un po' e fargli tirare fuori gli artigli, allora mi trovi in sella del mio velocipede supermolleggiato in cerca di sentieri e adrenalina pura. La mia sete culturale la soddisfo con della cervogia fresca e con le profonde conversazioni che nascono durante le partite più frustranti dell'FC Winterthur.